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CUCCHI


Pag.14 - Gli anni '90 e alcune considerazioni sull'attività solistica

La pagina di Flavio Cucchi

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di Flavio Cucchi


Anche il decennio successivo ('90 - '99) mi ha regalato molte esperienze nuove e interessanti: sono gli anni dei dischi per ARC,

delle trasmissioni in TV,

dei tour in Messico (Qui a Città del Messico con James Bogle e signora e il compositore Ernesto Cordero) e in USA,

la prima volta in Asia (a Singapore con Jorge Morel),

ll Cimarron di Henze,  diverse prime esecuzioni e molto altro.

Gli anni '90 sono quelli dell'Unione Europea, la diffusione dei cellulari e dei computer ma soprattutto di Internet.

I vinili vengono sostituiti dai CD e spariscono le musicassette.

La distribuzione della musica subisce la prima trasformazione che porterà allo stravolgimento totale del mercato musicale e non solo.


Rileggendo quello che ho scritto finora mi sono reso conto di essermi soffermato quasi sempre su eventi di gruppo (concerti con orchestra, cantante, diversi ensemble, attori…) e solo raramente sui miei recital solistici, come se questi fossero normale amministrazione.

In effetti suonare da solo è un atto quotidiano che svolgo da 65 anni!  Non c'è da stupirsi se lo considero un'azione abituale come lavarmi i denti.

Vale la pena però, prima di entrare nel racconto di questo decennio, fare alcune riflessioni sull'argomento.



Suonare da soli


La dimensione solistica richiede un livello di attenzione e di concentrazione che non ha uguali e comporta centinaia di ore di studio fatte in solitudine, eppure, se devo pensare a momenti di piacere nella mia professione non mi vengono in mente i concerti riusciti bene, ma le ore in cui lavoro su un pezzo nuovo che mi piace.

Il motivo è questo: se il concerto è il momento dell'esecuzione del brano musicale, con tutta l'adrenalina che comporta, gli applausi ecc. il vero momento creativo è la sua preparazione.


E' in quelle ore che scopriamo la nostra personale visione del brano musicale, che in quel momento diventa “nostro”.

E' parte di questa fase creativa anche la ricerca delle soluzioni tecniche atte a realizzare la nostra visione.


Quando approccio un pezzo nuovo, per prima cosa lo suono diverse volte così come viene, (anche per diversi giorni) per familiarizzarmi ma soprattutto per trovarne il senso.

Cos'è il senso di una musica? E' il flusso di emozioni che riesce a creare.

E' quello che noi musicisti “vendiamo” ai nostri ascoltatori ed è quello che dobbiamo comunicare.


Recentemente un collega mi ha segnalato un'affermazione di Maurizio Pollini che avvalora la mia convinzione:

"Come possiamo sapere se abbiamo compreso il senso di una musica?

Dall'emozione che ci procura.

E' un criterio soggettivo, eppure è l'unico che funziona veramente."


Quando dopo aver suonato e risuonato il brano trovo la mia chiave di lettura, mi capita di provare una piacevole sensazione di certezza e a quel punto inizio a trovare le diteggiature che esprimono il gesto che mi permette di “dire” le frasi così come le intendo.

(Le diteggiature si scelgono con questo scopo, non quello di fare meno fatica o di rischiare meno di fare errori!)


Questa fase è quella più intensa e creativa, quella della comprensione e delle decisioni.


Me ne sto nel mio studio, totalmente immerso nel mio universo personale, senza distrazioni e faccio quello che mi piace di più: cercare il modo di creare emozioni facendo vibrare aria. Non è una cosa incredibile?

In quei momenti chi è più felice di me?


Una cosa importante: lo studio di un pezzo deve avere una destinazione concreta (concerto o registrazione); le centinaia di ore di studio nel realizzarlo, lo sforzo e la pressione sono motivate dalla consapevolezza che qualcuno lo ascolterà.

I dilettanti possono certamente provare piacere nel suonare per se stessi, ma per quanto mi riguarda tutto questo lavoro ha senso solo se viene offerto ad altri.


Quando nella mia testa il pezzo è chiaro passo alla seconda fase, che consiste nell'imparare a suonarlo sul serio.

In questa fase insegno alle mie mani a fare la sequenza giusta di movimenti nel modo più fluido possibile ma non studio mai in modo ripetitivo gli elementi espressivi (rallentando, rubato ecc.) Quelli vanno serviti espressi.


Studiare in dettaglio questi artifici può rendere le esecuzioni perfette ma suonano finte e, per me, noiose e vuote.

Sarebbe come ripetere allo specchio 100 volte con espressione languida: “Laura, come sei bella…” e poi andare da Laura a ripetere la scenetta.

Laura ti pianterebbe per il primo che le dicesse le stesse parole istintivamente in un momento di trasporto.


La fase successiva è la preparazione alla performance, che è tutt'altra cosa.

Ora si deve curare l'esecuzione del pezzo per intero, impararlo a memoria e fare gli ultimi aggiustamenti. A questo punto si suona come se si fosse in concerto, includendo liberamente tutti gli elementi espressivi, che possono acquisire sfumature ogni volta diverse (fatta salva l'idea generale) secondo l'estro del momento.

Ho scritto di questa sequenza di studio una trentina di anni fa 24-come-vivere-felici-facendo-il-concertista  e continuo ad usarla anche oggi.


L'unica cosa che ho aggiunto è questa: nella seconda fase di studio divido sempre il pezzo a sezioni (naturalmente seguendo un criterio musicale, non per numero di battute).

Questo mi aiuta nell'orientamento e nella memoria.


A questo punto viene il concerto vero e proprio, e qui intervengono altri fattori che possono influenzare il risultato. Non sei più solo nel tuo universo, ma sei anche in quello degli altri che ti ascoltano! Ed è un drastico cambiamento di spazio.

Alcuni non reggono lo stress e pur essendo ottimi musicisti soffrono troppo e limitano la loro attività artistica alla musica da camera (meno pericolosa) e all'insegnamento.

La differenza tra suonare da soli e davanti a un pubblico la conoscono tutti: la frase più pronunciata dagli studenti a lezione in conservatorio è la sconsolata ”…a casa mi veniva!”


Il filo

In concerto cerco sempre di creare il flusso di emozione che ho individuato in fase di studio.

E' un equilibrio delicato, non automatico… è come camminare su un filo: se voglio controllare troppo, l'esecuzione è precisa ma il “magico” non esce, se mi lascio troppo andare, basta un attimo e sono fuori…

In concerto poi si può essere intralciati anche da elementi oggettivi come acustica, temperatura, stanchezza, Jet Lag ecc. e a volte può capitare di non riuscire nemmeno a salirci sul filo invisibile…


Ma quando trovo l'equilibrio tutto scorre naturale e spontaneo, non controllo niente, non penso a niente, mi sembra di ascoltare il pezzo per la prima volta e il “magico” esce: lo so e lo vedo, dopo il concerto, nella gente che mi viene a salutare con le stelline negli occhi.




(Continua…)