di Angelo Gilardino
Si fa ovunque sempre più insistente l'offerta di concerti di orchestre di chitarre: l'immagine di una o due dozzine di chitarristi che si affacciano insieme alla ribalta non è più una rarità.
Dove sorge questo fenomeno? La risposta più verosimile è anche quella più ovvia: all'origine, vi è la sproporzione tra l'inarrestabile crescita del numero dei chitarristi che hanno studiato, o che ancora studiano, nei conservatori, e la scarsità di occasioni che la vita musicale offre loro per esibirsi come solisti – ruolo comunque destinato a ben pochi – e come componenti di formazioni strumentali da camera – ruolo più accessibile, ma non ancora ben chiaro nella loro formazione culturale.
Sembra dunque naturale, ai chitarristi in cerca di opportunità per farsi apprezzare, riunirsi non soltanto in duo – formazione già esistente nella tradizione e provvista di un adeguato repertorio – ma anche in trio, quartetto e in ben più numerose compagini, fino a denominarsi “orchestra di chitarre”.
Il repertorio della chitarra è ricco di musica per lo strumento solo, anzi, la quasi totalità della musica scritta per chitarra nell'Ottocento tende a valorizzare, con l'adozione di ben congegnate retoriche, l'immagine della chitarra come “piccola orchestra” e a creare l'illusione di una completezza non soltanto piena, ma in certi momenti ridondante.
La padronanza dell'idioma che valorizza quest'immagine della chitarra fu ritenuta da Hector Berlioz – chitarrista della domenica – indispensabile, fino a fargli sentenziare che l'impresa di comporre per lo strumento era da affidare soltanto ai chitarristi stessi – pena il fallimento delle pagine composte da chi non avesse la chitarra sotto le dita.
Questo veto paralizzò generazioni di potenziali artefici del repertorio della chitarra: mi fu opposto, per citare solo un caso, da Luigi Dallapiccola. Aggiunse Berlioz – e non gli si può dar torto – che un unisono di dieci chitarre è ridicolo.
Qual è dunque, al di là dello stimolo che induce i giovani chitarristi a riunirsi in gruppi per offrire qualcosa di vendibile, il fondamento musicale sul quale può reggersi un brano per orchestra di chitarre?
Si incomincia con l'ammettere che il tentativo – purtroppo ricorrente – di ridurre in dimensioni chitarristiche una partitura sinfonica è da tacciare, se non con l'aggettivo di Berlioz, almeno come pretesa velleitaria. Ascoltare brani anche di carattere ispanico, come quelli tratti dai balletti di Manuel de Falla, in versione per orchestra di chitarre, è un'esperienza musicale da evitare accuratamente.
Meno improbo, il tentativo di costringere nell'estensione e nel timbro delle chitarre pagine scritte per pianoforte provoca una sensazione di perdita e di spaesamento, ma non una ripulsa. È chiaro comunque che il nocciolo di un repertorio non può consistere negli adattamenti forzosi (pomposamente definiti “trascrizioni”).
Non esistendo, al momento, una serie di modelli storicizzati, è possibile soltanto, da parte dei compositori invitati a scrivere per orchestra di chitarre, offrire risposte individuali, escogitando – ciascuno per sé – un modus operandi e, se mai l'operazione funzionasse, definendo uno stile. Dirò qui sinteticamente del come io abbia cercato una mia soluzione al rompicapo creato dallo scrivere per gruppi di chitarre.
I pericoli più gravi ai quali ci si espone sono quelli dell'opacità sonora e della genericità nella scrittura. La sovrapposizione dei suoni di più chitarre dà facilissimamente luogo a spessori indecifrabili all'ascolto ed esteticamente perversi: anche se non si tratta di unisoni, l'effetto è degno dell'apprezzamento di Berlioz.
Inoltre, la creazione di trame e orditi polifonici nei quali ciascuna chitarra esegue linee monodiche non ben specificate in un quid chitarristico, e dunque teoricamente affidabili a qualunque strumento ad arco o a fiato compatibile con i registri in causa, è destinata al fallimento: ne escono impasti sonori slombati e privi di carattere.
Nella ricerca di una soluzione al problema, sono giunto a una conclusione apparentemente bizzarra, che però, accuratamente sperimentata, ha dimostrato di reggersi in piedi, in quanto capace di dar luogo a risultati musicalmente utili e non ricreabili altrove e altrimenti: esclusivi, cioè, dell'orchestra di chitarre.
La formula riassuntiva di tale conclusione è: comporre per più chitarre come se si stesse componendo per una chitarra sola, ma virtuale, cioè divisa in frazioni, ciascuna delle quali viene affidata a una chitarra reale – che lavora dunque molto al disotto delle sue possibilità, ma con una specificazione timbrica estrema.
Il risultato è inaudito e sorprendente: si può conservare la rarefatta trasparenza polifonica tipica della musica per chitarra sola, espandendone però i valori timbrici in una sorta di proiezione inaccessibile alle sole sei corde.
Ovviamente, la suddivisione della polifonia in segmenti affidati a ciascuna chitarra permette anche infinite configurazioni armoniche e contrappuntistiche inaccessibili alla chitarra sola, e spesso utilissime, a patto di non gonfiare eccessivamente il tessuto polifonico, e di saperlo mantenere nell'ambito di una scrittura essenzialmente solistica.