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PUNTI DI VISTA

Chitarra reale e chitarra virtuale

Una chiave di accesso alle problematiche

della composizione per gruppi di chitarre

di Angelo Gilardino


A.Gilardino

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Le eccezioni possibili a tale regola si rivelano da sé, nel divenire della composizione, come una risorsa aggiuntiva da adoperare con la massima cautela (ne dirò più avanti). È di capitale importanza, nel tracciare i profili delle parti, adoperare intervalli melodici e diteggiature che permettano di sviluppare la sovrapposizione delle vibrazioni (cioè l'effetto laissez vibrer) in ogni singola parte: in mancanza di tale peculiarità, il suono di ogni chitarra scade in una inutile surroga del suono di altri strumenti.


Questa constatazione, raggiunta attraverso una riflessione svoltasi in astratto, ha originato, sul campo, conseguenze assai rilevanti in ambito formale: non si dura fatica a comprendere come, per costruire una composizione con questo, inedito suono, qualsiasi forma musicale pre-esistente risulti inservibile, e come sia invece necessario inventare forme nuove.


Nel mio caso – l'unico che conosco a fondo – la necessità di creare una relazione dialettica tra il suono di una chitarra sola, trattata più o meno conformemente a quanto avevo fatto in precedenza,  e la chitarra virtuale inventata nella nuova dimensione del gruppo multichitarristico,  ha dato luogo a una sorta di forma ad antifona, dove la chitarra sola si manifesta nella sua identità storica di protagonista (erede di una tradizione, di una retorica, di un potere insito nel suo particolarissimo modo di far polifonia), e il gruppo multichitarristico assume invece un ruolo da coro di teatro greco, commentando “da fuori” gli eventi.


Se quello della chitarra “normale” può essere considerato – con un briciolo di immaginazione poetica – una metafora del suono di un'orchestra, quello della chitarra virtuale può essere definito – con lo stesso metro immaginifico – una metafora della metafora:  l'alternanza tra i due piani sonori assurge a elemento drammatico pur senza suscitare contrasti per opposizione, e si presta a una manipolazione di cui è arduo tracciare i confini: si sa dove si incomincia, ma è difficile fermarsi, perché il campo delle possibilità che si aprono nel gioco delle parti si estende a perdita d'occhio.


Risulta in ogni caso evidente, fin dai primi abbozzi formali, come non si debba far uso delle alternanze tra chitarra reale e chitarra virtuale con un dialogo fitto e con fraseggi stretti: è invece molto più efficace alternare ampie sezioni a ciascuno dei due piani sonori, con rarissime (e sempre periclitanti) sovrapposizioni.


Il mio primo lavoro multichitarristico fu scritto nel 1992, e s'intitola Concerto d'estate. Il titolo non adombra alcun intento programmatico ma, più modestamente, si riferisce al fatto che il brano fu composto nell'estate del 1992, durante i corsi estivi che a quell'epoca io tenevo a Trivero, nel Biellese, in un edificio costruito quasi alla sommità della collina percorsa dalla strada panoramica Zegna.


Mi misi subito al lavoro e in capo a tre settimane il Concerto d'estate per chitarra sola e quartetto di chitarre era terminato. Incominciarono subito le prove e fu evidente fin dalle prime audizioni che la formula funzionava: bastarono pochi aggiustamenti per giungere alla conclusione.


Nello scrivere la partitura, spesi molta attenzione, non soltanto nel mantenere la scrittura quartettistica negli ambiti “solistici” che avevo compreso essere i garanti del risultato, ma anche a individuare alcune  possibilità di sconfinamento in ambiti più vasti – cioè non più solo-chitarristici – senza rischi per la trasparenza sonora (le eccezioni di cui dicevo in precedenza).


Ne trovai pochissime, in verità, ma assai efficaci, e imparai a servirmene quando il discorso musicale esigeva il massimo allontanamento dei due piani sonori.


Per esaltare l'effetto di straniazione creato dall'alternanza tra il suono della chitarra reale e quello della chitarra virtuale, feci ricorso anche a una convocazione dal passato: il Concerto inizia non soltanto con il suono fantasmatico del quartetto, ma anche con la citazione di un piccolo, toccante Studio di Fernando Sor (op. 44 n. 17).


Su questa esile polifonia, distribuita – o forse sarebbe meglio dire dispersa – nelle ventiquattro corde del quartetto, irrompe un agitato monologo della chitarra sola; all'atto dello scrivere, da lì in poi il problema non fu quello di trovare il modo di continuare, ma quello di orientarmi nella selva della infinite possibilità che sorgevano all'orizzonte: comporre è assai meno creare che scoprire, e talvolta, tra le cose scoperte, scegliere è più arduo che immagazzinare tutto il possibile, con acritica ingordigia.


Dicevo delle eccezioni alla regola aurea di scrivere per quattro chitarre come se si stesse scrivendo per chitarra sola. Proprio nel primo movimento del Concerto d'estate ebbi modo di individuare il terreno fertile per eccepire, e lo feci alquanto generosamente.


L'arpeggio chitarristico con effetto laissez vibrer – risorsa idiomatica “naturale” nella scrittura tradizionale – non solo accetta la sovrapposizione di altri arpeggi, ma se ne arricchisce felicemente, a condizione di adoperare, per i vari profili, una formula omoritmica che unifichi le scansioni di tutte le parti.


Le quintine arpeggiate con note diverse da quattro chitarre sono uno dei risultati sonori più originali che io abbia mai potuto immaginare (e ascoltare), e si può dare soltanto in veste chitarristica: nessun altro strumento o gruppo potrebbe crearne l'equivalente: è sì uno spessore, ma volatile e trasparente.


Il buon esito del primo tentativo mi incoraggiò nella prosecuzione dell'esperienza multichitarristica, e l'anno seguente (1993) fu la volta del Concierto de Córdoba, il cui avvio fu suggerito dalla lettura di un saggio di Marguerite Youcenar intitolato L'Andalucía o le Esperidi1.


Un passo, in particolare, mi stimolò a riprendere in mano la penna e a ritentare la formula del concerto per chitarra sola e quartetto di chitarre:



































Non era il suono della chitarra sorto dall'incontro cruciale tra la cultura araba e quella greca? La ricerca delle ambientazioni sonore specifiche di quel pensiero-sentimento fu alquanto laboriosa e, a tratti, esasperante, ma alla fine il “vero” emerse staccandosi dal “possibile”.


A margine, e con stupore mai esauritosi, devo annotare il ricordo dell'esecuzione che l'estate dell'anno seguente (1994) il Quartetto di Asti e il solista Luigi Biscaldi diedero al Gran Teatro di Córdoba. Provai qualche apprensione nel vedere i posti della prima fila occupati dal Gotha della chitarra flamenca – il che non era in sé sorprendente, essendo la città dei califfi uno dei templi della cultura del cante;  immaginai il disappunto che sarebbe nato, nei maestri delle soleares, all'ascolto di un brano che nulla aveva di flamenco, e pensai che ne avrebbero a fatica sopportato l'ascolto fino alla fine.


Invece, liliali, mi avvicinarono dopo l'esecuzione, commentando l'essenza della composizione con un acume che mi lasciò di stucco: l'avevano colta in pieno senza la minima difficoltà – prodigio che si è verificato assai più raramente nel mondo della chitarra “classica”.


Un terzo concerto per chitarra sola e quattro chitarre sarebbe stato di troppo. Puntai dunque, l'anno seguente (1994), a un lavoro diverso, di dimensioni minori, ma con il proposito di rendere la ricerca di suono ancora più sottile. Ne nacque il Poema d'inverno per chitarra sola e duo di chitarre.


La virtualizzazione del suono chitarristico attuabile con un duo non è illimitata, e anzi il duo si colloca in una linea di confine tra il reale (chitarra sola) e il virtuale (gruppo multichitarristico) osservabile da entrambi i lati. Paragonato alla chitarra sola, il duo – se efficacemente trattato – può assomigliare a una chitarra virtuale, ma in sé stesso è molto più “reale” di un quartetto.


La conseguenza più immediata di questa riflessione fu l'adozione di una nuova forma: invece di un altro concerto, architettai una forma non più antifonale o responsoriale, ma a piramide rovesciata, collocando in successione la chitarra sola, il duo e il trio, cioè predisponendo tre piani sonori. La successione si svolge due volte.


Vi è quindi, dopo la terza sezione, un ritorno alla chitarra sola, e poi nuovamente l'accumulo, ma il finale è in dissolvenza, con appena un filo esilissimo di sonorità. In questo paesaggio sonoro, assai più che nei due precedenti, trova spazio l'iterazione di figure sonore che, ripetendosi, non danno luogo ad alcun movimento di energia né ad alcun moto direzionale: la negazione del tempo cronologico è quindi il carattere primario di questo poema musicale che riconosce nell'inverno, nella sua immota desolazione e nel glaciale silenzio delle sue distese innevate, non una stagione dell'anno, ma un congelamento della storia, un arresto della clessidra e un cuneo che attraversa e immobilizza lo scorrere degli attimi, delle ore e dei giorni.



I componenti del Quartetto di Asti – una della prime formazioni multichitarristiche italiane – stavano provando una eterea versione della sonata schubertiana detta dell'Arpeggione e, a poca distanza, un solista stava provando il Nocturnal di Benjamin Britten.


Nel caos della mescolanza di suoni, mi accadde di percepire la potenziale drammaticità del confronto tra il suono di una chitarra già cognita  e quello di un'entità chitarristica inaudita, che non tendeva a moltiplicare il suono di una chitarra sola, ma a variarne prismaticamente l'essenza e il colore.


A Córdoba, centro di cultura al quale davano vita il fervore musulmano, la sottigliezza ebraica e alcuni concetti ellenistici filtrati attraverso l'alambicco del pensiero arabo, un popolo di alchimisti, di algebristi e di astronomi perviene nella moschea alla totale trasmutazione, all'equazione più complessa e all'equivalente perfetto delle segrete meditazioni di un Averroè o di un Avicenna.

Dopo l'assottigliamento della sonorità operato nel Poema d'inverno, non rimaneva che un solo tentativo da compiere: quello di incrementare ulteriormente –  rispetto ai primi due concerti – la dimensione del gruppo multichitarristico: operazione temeraria, perché, aumentando il numero di chitarre, cresce esponenzialmente il rischio di creare quel “pastone” sonoro paventato da Berlioz e purtroppo evidente nel suono di molte orchestre di chitarre, da un lato opache nella resa polifonica, dall'altro impotenti nella gamma dinamica.


Persuaso del fatto che occorresse difendere il principio della scrittura trasparente per una chitarra virtuale, elaborai, tra il 1994 e il 1995, il Concerto d'autunno per chitarra sola e piccola orchestra di chitarre. Si tratta, in realtà, di due quartetti, uno con accordatura normale e uno con differenti “scordature” della sesta corda: re diesis, re, do diesis, do.

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1. Marguerite Yourcenar, L'Andalucia o le Esperidi, traduzione di Fabrizio Ascari, in Opere, Bompiani 1992.

https://www.youtube.com/channel/UCjVUTxlg4hSSqZu1gks7pGA