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PUNTI DI VISTA

Chitarra reale e chitarra virtuale

Una chiave di accesso alle problematiche

della composizione per gruppi di chitarre

di Angelo Gilardino


A.Gilardino

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Paradossalmente, lo spessore sonoro complessivo di questa composizione è persino un poco inferiore a quello dei due concerti per chitarra sola e quartetto di chitarre, e ciò non soltanto per tener fede alla mia convinzione estetica di principio, ma anche perché immaginai che la composizione potesse servire al repertorio di gruppi formati da esecutori di media capacità. La nota introduttiva che precede la partitura avvisa inoltre:

Nel caso di gruppi che abbiano raggiunto un alto grado di elaborazione del suono, è ammissibile il raddoppio delle parti, che il direttore regolerà seguendo le indicazioni dinamiche e a seconda delle caratteristiche e delle esigenze del solista.

Resta il fatto che l'equilibrio ideale viene raggiunto solo nel caso della presenza in scena di otto, bravissimi chitarristi, più un solista, che dev'essere eccezionalmente dotato –  cioè, un vero solista.


Al contrario del Poema d'inverno, e ancor più dei due altri lavori precedenti, il Concerto d'autunno è una composizione drammatica. L'abbrivo venne dalla lettura (ancora una volta), e precisamente da un saggio di Elémire Zolla intitolato Le rune e lo Zodiaco2, nel capitolo dedicato al segno dello Scorpione:

Nel cielo si leggono tragiche vicende, poiché il sole è soverchiato e incomincia il suo declino nelle tenebre invernali.


I Greci facevano una lettura catastrofica e una medicinale. Compare infatti sulla Via Lattea il segno della perfidia già noto a Babilonia, lo Scorpione, e uccide il sole […]; le dighe sono spezzate, si confondono le acque celesti e le infere. Calano, al salire dello Scorpione, il Toro e Orione, fornendo altri emblemi di morte. Si leva in cielo il Serpentario (o Asclepio o Plutone o Serapide), dio delle tenebre, e rosseggia la stella marziale Antares.  

Il contrasto tra la mite, melanconica dolcezza dell'autunno terrestre e la tragedia dell'autunno astrale è riflesso nell'incipit del Concerto d'autunno, dove la chitarra virtuale si immerge nella statica, ripetitiva contemplazione di un tempo di rassegnazione e di quiete, sul quale scende come una spada infuocata il tema tagliente del solista. Tutto il concerto è giocato sulla percezione di una oscura minaccia che viene da lontano e invade un luogo di estenuata bellezza.


Non c'è strumento come la chitarra che possa alludere all'invisibile, e la chitarra virtuale lo può fare in modo ancora più efficace della chitarra storica e reale. In questo concerto, il solista è scaraventato nel mondo, ma il suo dialogo non si svolge con un'entità mondana: deve parlare con le ombre, e quelle parlano una lingua affine alla sua, ma per lui impronunciabile. Nella mia immaginazione, il solista di questo concerto dovrebbe essere al tempo stesso Andrés Segovia e Laurence Olivier, un grande chitarrista e un grande attore.


Dopo aver composto il Concerto d'autunno, mi inoltrai nella ricerca di altre prospettive sonore, sempre chitarrocentriche, ma con altri contraenti. Soprattutto, mi attrasse la ricerca nel campo del concerto per chitarra e orchestra, dove ritenevo di aver qualcosa da dire, e in cui non mancai di mettere a frutto esperienze accumulate nella stagione “multichitarristica”.


Mi dimenticai dei gruppi di chitarre: erano acqua passata. Nel 1998, tuttavia, per rispondere alla richiesta del Quartetto Guitart di Avellino, misi in piedi la partitura del Concerto Italiano per quattro chitarre e orchestra da camera. Di questa ricerca, dovrei riferire a parte – in un saggio, che forse scriverò, sugli aspetti della composizione per chitarra – o chitarre – e orchestra.

Si ha talvolta la sensazione di tornare sui proprii passi, ma in realtà il riprendere un genere di composizione abbandonato da una dozzina d'anni è esperienza nuova: il tempo non trascorre invano e modifica – quando non sconvolge – le prospettive, gli assetti, le procedure, le tecniche.


Così, quando nel 2007 Lucio Matarazzo, leader del Quartetto Guitart (ora disciolto), mi chiese di comporre un quartetto senza solista – un quartetto “puro”, mi disse – mi ritrovai a considerare la mia perduta chitarra virtuale come un fantasma del fantasma. Solo che ero io a cercare lui, e non lui a visitare me – nemmeno in forme misteriose. Decisi allora che non sarei andato per il sottile, e che avrei puntato sulla più conosciuta arma poetica del suono della chitarra: l'evocazione.


Che cosa evocare? Mi vennero in mente non dei mondi reali – ciò non mi accade comunque – ma delle immagini che io mi ero creato, negli anni giovanili, riguardo a mondi dei quali leggevo.


Ne scelsi tre: Vienna e le città dell'impero absburgico toccate dal Danubio, la Venezia dei Dogi e il mondo subvesuviano, Pompei ed Ercolano il giorno prima della catastrofe. Creai dei suoni puramente evocativi, e li legai a ritmi, a polifonie, più raramente a successioni accordali, dando per scontato – in ciò mi soccorrevano i miei trascorsi dei tempi dei concerti multichitarristici – che la virtualità del suono che andavo manipolando fosse specchio fedele della virtualità dei mondi – storicamente esistiti, ma non certo nei modi immaginati da me – di un'Europa colta e civile, sia nelle sue manifestazioni cortesi che nelle sue espressioni popolari. Quando mai si era data, nella storia, una realtà siffatta? Eppure, il suono-indice puntato verso una patria invisibile sa bene dove dirigersi.


Ho intitolato quel quartetto Feste lontaneSinfonietta per quattro chitarre.  Essendo superflua ogni nota didascalica sul tema delle feste in lontananza (sì, Manuel de Falla, e altri), mi ritrovai convinto nella decisione di adoperare, nel sottotitolo, la parola “sinfonietta”.


Serve ad ammettere, nel senso proprio del diminutivo, una dimensione piccola rispetto a quella della sinfonia vera e propria, ma anche a riscattare l'intero potere allusivo che, nei riguardi del suono di tutti gli strumenti, quello della chitarra virtuale può vantare, e di un suo suono specifico che da nessun'altra fonte sonora può sprigionarsi.




Molti altri dettagli potrei aggiungere al racconto della nascita della Sinfonietta per quattro chitarre, ma non è questa la sede adatta. Mi limito ad annotare, con rammarico, che il Quartetto Guitart non ne fece letteralmente nulla, salvo lodarne i pregi.


Ci dev'essere però, da qualche parte in paradiso, un sottosegretario che sovrintende agli affari dei compositori negletti da coloro che dovevano interpretare le loro musiche, e invece non lo fanno.


Si profilò all'orizzonte il validissimo Quartetto Santórsola, formato da quattro giovani virtuosi pugliesi, che subito prese sotto le proprie cure la Sinfonietta, ne diede esecuzioni pubbliche brillantissime, e ne fece anche una registrazione discografica che mi pare tuttora come un gran bel premio per le mie fatiche.


Tanto che, per ringraziarli e aiutarli a colmare il tempo vuoto per il loro imminente CD, cucii loro addosso un altro quartetto – questo però nel genere semiserio del pastiche, in cui amo sguazzare fin dai tempi giovanili degli esercizi di armonia e contrappunto: pescai, dagli studi del loro conterraneo Mauro Giuliani, sette perline, e le aggiustai, facendone un fondo ritmico-armonico, nelle corde di tre chitarre; su quel tappeto, inventai ex novo sette melodie à la manière de affidate alla prima chitarra, una terzina nel mio concetto, e invece, ancora meglio, una quintina nella realizzazione del Quartetto Santórsola: un divertimento per me che le ho scritte, ma credo anche per gli ascoltatori.


Se ben mi conosco, la mia love story con i gruppi multichitarristici è finita qui. Ci siamo però lasciati da buoni amici.


Sul serio.


A.G.