di Flavio Cucchi
La mia carriera di “bambino prodigio” si è conclusa bruscamente nel 1960 con il trasferimento della mia famiglia a Roma e successivamente a Firenze, dove ho fatto le scuole medie.
Curiosamente ero in classe con Daniele Lombardi, oggi noto pianista e compositore d'avanguardia.
In quel periodo, così lontano dalla globalizzazione e dall'appiattimento di oggi, Verona, Roma e Firenze erano tre mondi assai diversi per linguaggio, cultura e modi di fare, e il mio accento “nordico”, il fatto di aver passato l'infanzia a leggere e suonare la chitarra invece di giocare al pallone, il fatto di essere più piccolo della media in un mondo in cui i ragazzi si picchiavano continuamente e i giochi “social” includevano il prendersi a sassate (altro che FB!), uniti all'approssimarsi dell'adolescenza mi hanno creato tanti di quei problemi da farmi trascurare la chitarra per dedicarmi a una nuova disciplina più urgente: tecniche di sopravvivenza.
…Ma presto arriverà il mio momento: i favolosi anni '60.
Gli anni '60
Negli anni '60 ho suonato esclusivamente la chitarra elettrica, quindi potrei saltare questo decennio, visto che sto scrivendo per un sito di classica, ma forse vale la pena di spendere due parole sulla mia esperienza musicale perché forse alcune riflessioni potrebbero risultare di qualche interesse.
In Italia, all'inizio degli anni '60 si ascoltavano le canzoni melodiche, le canzoni napoletane, il Rock 'n roll americano di Presley e degli Everly Brothers e alcuni cantanti più moderni, definiti “urlatori” dalla critica bacchettona di allora.
Il target della musica leggera erano gli adulti, che erano quelli che compravano i dischi.
L'avvento dei Beatles, oltre alla novità strettamente musicale, ha spalancato la porta a un nuovo pubblico di giovanissimi che fino ad allora non avevano nessuna voce in capitolo, sparigliando le carte dell'industria discografica e della società in generale.
Non potete avere idea dell'impatto travolgente di questo gruppo nel mondo della musica e non solo.
Nel 1963, anno di uscita del primo LP dei Beatles avevo 14 anni e ricordo bene il momento in cui ho ascoltato per la prima volta Love me do, Please please me, She loves you e Twist and shout.
Mi trovavo in vacanza al mare e fu una giovane turista inglese piuttosto disinibita che mi introdusse, tra le altre cose, alla musica dei Beatles.
La loro musica emanava una vitalità, una sincerità, una creatività del tutto nuova e coinvolgente.
Improvvisamente il sogno di tutti i ragazzi diventò il suonare la chitarra, che fu in quel tempo lo strumento più venduto del mondo, e in questa nuova realtà mi trovai super avvantaggiato.
Entrai in un complesso (così si chiamavano allora) di ragazzi della mia zona.
Notate l'attenzione e la partecipazione del pubblico.
Una delle cose che ricordo con più intensità è la sensazione di fare la cosa giusta nel momento giusto, di suonare una musica nuova che interessava tutti i miei coetanei, di far parte attiva di un movimento creativo potente che caratterizzava e rappresentava la modernità travolgendo ruoli e consuetudini che erano sembrati intoccabili.
Più avanti, tornato al classico, ho cercato di proseguire la strada dell'avanguardia, suonando molta musica contemporanea, come vedremo in seguito.
Di questa esperienza di musica Beat, blues e in seguito psichedelica, durata dal '64 al '68 mi hanno fatto bene tre elementi: l'esercizio di ear training, il suonare con gli altri e l'improvvisare.
Ear training
All'epoca non si trovavano spartiti e in ogni caso nessuno sapeva leggere la musica.
Era difficile trovare anche i dischi che uscivano in Inghilterra e bisognava andare a Londra
(a quei tempi era come andare sulla luna) per poterli comprare.
Non si poteva duplicare nulla quindi gli eventuali spartiti dovevano essere copiati a mano; i dischi, preziosi e fragili, si ascoltavano su giradischi mediocri e i primi registratori portatili (grande novità) abbassavano ancora di più la qualità del suono, ma allora nessuno cercava la qualità del suono, tutti cercavano la qualità artistica, le idee musicali che, data l'ignoranza più totale della teoria musicale, repertorio ecc, chiunque poteva sfornare senza nessuna timidezza dovuta al paragone con i grandi musicisti della storia.
Forse questo è stato uno dei fattori che hanno favorito la grande ondata di creatività di quell'epoca.
Tutto funzionava a orecchio, unico arbitro delle scelte dei ragazzi del rinascimento pop.
“Tirar fuori” accordi e riff dai dischi era un esercizio utilissimo per sviluppare l'orecchio che diventava super sensibile e affidabile come l'udito dei ciechi.
Ricordo che negli anni '90 ho fatto alcuni concerti in Germania organizzati dalla mia casa discografica (ARC Music) con un gruppo improvvisato di musicisti di varie culture. Avevamo deciso di suonare “Spain” di Chick Corea.
Il riff di quel pezzo è ritmicamente complesso e piuttosto lungo ma mi è bastato suonarlo un paio di volte che tutti i musicisti lo hanno perfettamente duplicato con gran sicurezza basandosi su questa capacità iper sviluppata.
Suonare insieme
La formazione standard del complesso, (chitarra solista, chitarra ritmica, basso e batteria) stabiliva ruoli diversi e complementari, una sorta di grossolano quartetto d'archi, ed è stata una pratica “cameristica” molto formativa.
Inoltre, non c'è niente da fare: un gruppo riesce a creare un impatto che nessun solista, pur bravissimo, riesce a creare, e il suonare con altri crea dei rapporti umani fortissimi di amicizia, ammirazione, e spirito di gruppo.
Un caro amico che ricordo volentieri era Lally Stott dei Motowns.
Era più grande di me e mi ha insegnato molti “segreti” della chitarra elettrica.
Come ho già detto le informazioni all'epoca erano scarsissime e a volte non si sapeva come risolvere problemi che ora appaiono banali.
Un esempio: nei dischi dei gruppi inglesi si sentiva l'uso del bending ma non si sapeva come fare, visto che le corde, allora, erano troppo rigide. Poi finalmente un chitarrista fiorentino tornato da Londra ci ha spiegato (gli abbiamo estorto) l'arcano: si dovevano “scalare” le corde, cioè montare due prime corde, due seconde , una quarta e una quinta così erano abbastanza sottili e morbide e potevano essere piegate a volontà.
Lally fece in seguito un grandissimo successo con una sua canzone con un titolo un po' scemo (chirpy chirpy cheep cheep) ma molto carina (la trovate su YT)
Purtroppo Lally è morto nel '77 in un incidente stradale.
Improvvisare
La pratica dell'improvvisazione è stata senza dubbio molto importante per sviluppare il lato creativo.
Mi spiego: chi suona esclusivamente il classico si abitua a leggere uno spartito, convertire l'informazione in movimento e suonare.
Teoricamente uno potrebbe suonare tutta la vita senza farsi venire in mente nessuna idea musicale (dilettanti e strumentisti mediocri fanno spesso così), ma le caratteristiche di un artista non sono forse creatività, fantasia e comunicativa?
Non sono queste le qualità che distinguono un artista da un medico, un avvocato o un imprenditore?
Improvvisare significa abituarsi a farsi venire delle idee ed eseguirle immediatamente.
L'idea musicale passa direttamente dall'Io alle mani senza passare attraverso un foglio di carta e consolida un rapporto più efficace, più espressivo tra la propria intenzione e la sua realizzazione sulla tastiera.
Le mani si abituano a rispondere velocemente alle tue idee e questo ti permette, quando interpreti un pezzo classico, di variare la tua interpretazione a piacimento proprio mentre suoni in concerto, stimolato magari da un tipo di acustica o dal tuo umore del momento, rendendo così la tua performance più comunicativa, autentica ed efficace.
Chi studia molta tecnica trascurando questo aspetto è certamente preciso e veloce e rischia molto meno, ma l'elemento artistico non si sviluppa con il metronomo.
Paradossalmente i giovani musicisti della scena pop, grezzi, ignoranti e a volte violenti, erano più “artisti” di tantissimi concertisti classici che ho conosciuto.
Nell'autobiografia di Benvenuto Cellini, la sua descrizione dell'ambiente artistico cinquecentesco e dei suoi protagonisti assomigliava molto di più, (con le dovute proporzioni, s'intende), alla scena pop degli anni '60 piuttosto che all'ambiente dei “classici”, che a volte, pur bravissimi, non si riconoscono nemmeno come artisti.
Per concludere sulla mia esperienza pop:
Nel 1968 ho inciso con il mio gruppo (Chewing gum) un 45 giri per la RCA Talent.
Ho scoperto proprio ora, con stupore, che esistiamo anche su Wikipedia , che in una delle sue pagine ci definisce così:
"I Chewing Gum sono stati un gruppo musicale italiano di genere garage rock degli anni sessanta, considerati tra i più quotati tra quelli che hanno dato vita alla psichedelia italiana e tra i precursori del progressive."
I gruppo poi si è sciolto e dal ’68 al ’70 sono entrato in un gruppo di avanguardia spinta.
Notate l’estetica pop del poster tipicamente anni ’60 realizzato da un artista che vive a New York.
Da una parte sono stati momenti musicalmente molto creativi, avevamo un repertorio totalmente nostro, eravamo fra i primi a usare il moog e suonavamo spesso al favoloso Space Electronic, locale dedicato a musica, video, teatro d'avanguardia e sperimentazione, dove si sono esibiti Julian Beck e Judith Malina con il Living Theatre, ma anche Dario Fo e Franca Rame, Rory Gallagher e Van Der Graaf Generator.
Ma i tempi erano cambiati: la gioia di creare dei Beatles aveva lasciato il posto a una cupa atmosfera di disfacimento e distruzione. Gli anni di piombo incombevano con gli eskimo, le cariche della polizia, i morti di overdose, e tutti gli eccessi dell'epoca di cui non mi sono fatto mancare nulla.
Questa foto, elaborata dallo stesso artista del poster, è proprio di questo periodo e non ho un'aria particolarmente estroversa e felice.
Il mio pezzo è stato in seguito ripubblicato in USA in una compilation di Beat italiano anni '60 dove ci hanno messi in copertina.
Il mondo colorato era diventato grigio e la notte di capodanno tra il '69 e il '70 ho deciso che ne avevo abbastanza, avrei piantato l'ambiente con tutto quello che comportava e sarei tornato alla chitarra classica.
E così ho fatto.
(continua)